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Abbiamo appreso recentemente che la vita di un bravo e caro calciatore del Mazara dei tempi d'oro, stimato ed apprezzato da coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, ha avuto un triste epilogo. Ci è parso doveroso inserire in questo blog notizie relative alla sua scomparsa.
Adolfo Cartisano, nasce a Bovalino il 9 maggio 1936. Mostra fin da piccolo una spiccata intelligenza e i genitori, falegname il padre e titolare di un piccolo esercizio commerciale la madre, fanno grandi progetti su di lui: farlo studiare, farlo diplomare, offrirgli un diverso status sociale. Nonostante una infanzia trascorsa nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, riesce a diplomarsi ragioniere a Siderno e ad iscriversi all’università di Messina. La sua passione è il calcio, attività sportiva in cui dimostra doti che lo porteranno negli anni successivi a militare in squadre sempre più importanti, dal Locri al Castrovillari, al La Spezia in serie C ed al Mazara del Vallo in serie D, città in cui rimane fino al 1964.
All'età di 23 anni, calciatore dell'U.S. Mazara, serie D
Insieme al calcio, l’altra grande passione di Lollò, la fotografia, comincia a germogliare già dal 1962, anno in cui il futuro suocero, fotografo con uno studio già ben avviato, gli fa dono di una buona macchina fotografica. Lollò e Mimma si sposano nel 1963. Dopo il 1965 Adolfo comincia a frequentare lo studio del suocero e quasi senza accorgersene inizia a fare un praticantato da fotografo che lo porterà, nel 1974, ad aprire uno studio fotografico insieme alla moglie.
Nel 1973 compie il suo primo viaggio all’estero, a Spalato. Dai luoghi visitati vorrebbe portarsi via le cose più belle, i monumenti, i volti della gente, gli angoli urbani più suggestivi, e lo fa, questa volta, con perizia e professionalità: dispone di un’ottima macchina e del bagaglio tecnico-professionale trasmessogli dal suocero. Con il viaggio in Jugoslavia iniziano le peregrinazioni di Lollò intorno al mondo: lo fa nel periodo di riposo che ogni anno si concede dal quotidiano lavoro di fotografo per professione e quasi sempre accompagnandosi con il suo inseparabile amico Pepè Battaglia. Trasferisce ed immortala sulla pellicola le sensazioni, le impressioni, le situazioni ed i luoghi più vicini al suo animo: volti di bimbi, di ragazzi, di donne, di operai al lavoro, di animali, di persone colte nella esplicazione di determinate funzioni sociali (le attività lavorative, le cerimonie rituali, ecc.). Il gusto dell’avventura, della scoperta, della conoscenza e del confronto con altri popoli, altra gente, altri stili di vita influenza ed istiga la sua vis creativa ma nello stesso tempo lo induce a porre su un piano parallelo e paritario i “reperti” del suo girovagare per il pianeta. I volti di bimbi dell’Africa, dell’Asia, dell’America del Sud pur non perdendo la loro peculiarità diventano “i volti dei bambini del mondo”, il loro sorriso l’aspettativa di un mondo migliore; le persone “sorprese” nello svolgimento delle quotidiane attività lavorative diventano l’esposizione del “lavoro dell’uomo”, e perdono la loro singolarità per acquistare carattere di universalità.
Nel 1993 venne sequestrato a scopo estorsivo dalla 'ndrangheta, ma, nonostante il pagamento di un riscatto, non venne mai liberato. Solo nel 2003, grazie ad una lettera anonima, il suo cadavere viene ritrovato. Il suo è stato l'ultimo sequestro perpetrato dalla 'ndrangheta, che in seguito si concentra prevalentemente sul traffico di stupefacenti.
Venne sequestrato davanti alla sua casa al mare a Bovalino. I sequestratori sorprendono Cartisano e la moglie Mimma in macchina. La moglie viene stordita con un colpo in fronte e abbandonata, mentre il marito viene portato via. Nonostante il pagamento di un riscatto, il fotografo non viene riconsegnato alla famiglia. La famiglia decide allora di mobilitarsi e di far sentire la propria voce, scendendo più volte in piazza. Il clamore porta per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia a recarsi a Bovalino, dove i sequestri a scopo estorsivo erano stati già 18. Dopo pochi mesi dal rapimento vengono arrestati i sequestratori, ma non si riuscirà mai ad arrivare ai carcerieri.Dopo i molteplici appelli della famiglia e le lettere scritte annualmente dalla figlia Deborah, nel 2003 giunge alla famiglia la lettera anonima di un carceriere che si dichiara pentito e implora il perdono della famiglia. Il carceriere indica il punto, fra Bovalino e San luca, dove è sepolto il corpo di Lollò e imputa la sua morte ad un incidente di percorso. Il medico legale, infatti, dichiara come causa della morte un colpo alla nuca, causato da una caduta o da un colpo mal inferto. La famiglia risponde al pentito con una lettera aperta, come da lui richiesto, concedendogli il proprio personale perdono, ma chiedendogli di consegnarsi alla giustizia. La vicenda non ebbe seguito, ma gli avvocati dei condannati per il sequestro Cartisano dichiararono che poteva trattarsi della confessione di una persona in punto di morte. I funerali di Lollò Cartisano si sono svolti a Bovalino il 3 agosto 2003.
1962/63 - Una formazione con Adolfo
Alfonso Fortunato (massaggiatore), Baldi, Righetti, Di Pasqua, Adolfo Cartisano, Ricagni, Soldati, mister Gastone Prendato, Mario Riccobono, Fina, Guaiana, Ponte, Moscatello, Angelo Busetta
1963/64 - Campo sportivo "Nino Vaccara"
Salvatore Cristaldi, Adolfo Cartisano, Pino Vento
Lettera di Deborah, figlia di Adolfo Cartisano, sequestrato e ucciso nel 1993. Uno dei sequestratori, pentito, dopo 10 anni, svela dove si trova il suo corpo (Avvenire del 23 luglio 2003)
Carceriere di mio padre,
io vorrei incontrarti. È importante per me guardarti negli occhi, conoscere la persona che per ultima ha visto mio padre, che ha sentito le sue ultime parole, che ha condiviso con lui gli ultimi mesi della sua vita, quelli che a me sono stati sottratti.
Vorrei sentirti raccontare una storia che fino a questo momento avevo perso la speranza di poter mai conoscere in questa vita. (...)
Tu ci chiedi perdono, davanti a Dio e davanti agli uomini. Ecco, da quando la tua lettera ci è stata recapitata, la nostra vita non è stata più la stessa: la nostra famiglia si è ritrovata di colpo a rivivere tutto quanto era successo dieci anni fa. (...) Il dolore di una ferita che non si è mai rimarginata si è fatto sentire acuto come non mai. Quella paura che nostro padre non fosse più in vita, che per lunghi anni avevamo rifiutato di accettare, ora è diventata una certezza. Questa volta però alla sofferenza, al dolore indicibile di questa perdita così ingiusta e brutale, si è mescolata la speranza che tu ci hai dato - e oggi la conferma - di poter riavere le spoglie di nostro padre. Poter celebrare il momento dell'addio, poterlo accompagnare nel suo ultimo viaggio, poter piangere sulla sua tomba, andandolo a trovare ogni volta che ne sentiamo il bisogno, è per noi quel conforto umano che per troppo tempo ci è stato negato. (...)
Non ci è stato restituito nostro padre vivo, ma ora tu ci restituisci, insieme con le sue povere ossa, una certezza nuova: quella che la sua vita non è stata immolata invano. La sua vita, unita a questi dieci interminabili anni del nostro patire, è stata offerta perché nel cuore stesso di un carceriere di 'ndrangheta potesse nascere questa sete di perdono. Il coraggio di chiedere perdono. Questo coraggio comporta una vera forza di conversione, per condurre a un reale cambiamento di vita, che porta ad assumersi le proprie responsabilità di fronte a Dio e di fronte alla legge. Questo coraggio ti permetterà di poter guardare negli occhi i tuoi figli, di liberarli dal giogo della affiliazione mafiosa. E non dovranno più vergognarsi per te. Mi piace pensare che mio padre prima di morire abbia parlato con te, che le sue parole siano penetrate in profondità nella tua anima, che durante questi dieci anni abbiano maturato intimamente la tua capacità - oggi - di chiedere perdono. E se a questo possono in parte aver contribuito anche le mie dolorose lettere scritte sul giornale, è motivo di conforto il riconoscere che nulla va perduto. Io prego Dio intensamente di riuscire a perdonarti dal profondo del cuore.
So che la forza del perdono è la sola che può produrre conversione. Voglio arrivare a poterti dire: «Sì, io ti perdono, ed è per me anche una sofferta, intensa consolazione il riuscire a perdonare». Tu dici che sei malato, e non so se la tua malattia sia di tipo terminale. Se così fosse, io ho già la certezza che Dio ti accoglierà fra le sue braccia, e nel suo abbraccio potente cancellerà ogni tuo male, ogni tuo peccato, ogni tuo crimine, non importa quanto sia efferato. Dio è più grande del nostro cuore e in questa speranza io voglio pregare per te.
Tutte queste cose te le ho volute dire insieme con i miei fratelli e con la mia mamma, le cui lacrime sono l'offerta più grande di dieci anni di dolore
La lunga marcia della memoria: Bovalino, 22 luglio 2008
“Ogni volta che ricordiamo, la mafia viene sconfitta”. Con queste parole, pesanti come massi e vive come la speranza di giustizia, Don Tonio Dell’Olio conclude il momento di riflessione di questa giornata di marcia per ricordare le vittime della ‘ndrangheta. Assieme ai familiari di Lollò Cartisano, il fotografo di Bovalino sequestrato e ammazzato, e ad altre vittime della violenza ‘ndranghetista, abbiamo ricordato e reso omaggio ad uomini coraggiosi. Sul monte Pietra Cappa, nel cuore dell’Aspromonte, luogo dove è stato trovato il corpo di Lollò, ci siamo stretti attorno al dolore della famiglia Cartisano che su quella lapide ha ricostruito il proprio percorso di vita fondata sulla riluttanza delle logiche mafiose, sul ripudio dell’arroganza mafiosa, come aveva insegnato loro Lollò.
Una lunga camminata che sarebbe stata assai faticosa se non fossimo stati sospinti da una volontà superiore di resistenza e di opposizione verso il cancro che divora lentamente una terra tanto bella e profumata quanto dannata e marcia. La volontà di ricordare i caduti di questa guerra tra onesti e mafiosi ci ha portato per quegli aspri e desolati sentieri teatri di orrendi delitti. Il coraggio di affrontare i luoghi simbolo della ‘ndrangheta nasce dall’insaziabile bisogno di giustizia che ci portiamo dentro, un bisogno collettivo che unisce le diverse storie di vita raccontate là, all’ombra della maestosa Pietra Cappa e protetti dallo spirito dei dieci, cento, mille Lollò. Spiriti senza tempo capaci di donarci l’energia di andare avanti nonostante tutto, nonostante il vuoto.
Deborah Cartisano, figlia di Lollò, ha saggiamente detto che nella tragica esperienza del sequestro di suo padre lei e la sua famiglia hanno trovato nuovo senso alla vita. Capisco il significato di tali parole. Vedo l’essenza di questa frase nell’annuale pellegrinaggio della famiglia Cartisano sul quel luogo di memoria che custodisce il sacrificio di Lollò. Una camminata che fa paura all’ordine costituito mafioso il quale teme più di ogni altra cosa il risveglio delle coscienze dall’atrofia e dall’anestetica rassegnazione.
Ciò che ha reso speciale la giornata del ventidue luglio, alle pendici del monolite aspromontano, è stata la condivisione di diverse esperienze “da vittima” che ha permesso un sostegno spontaneo tra le sofferenze soggettive di ognuno. Vomitare il dolore per rendere partecipi anche gli estranei a questa sofferenza, per “non piangere da soli”, come ci ha chiesto Stefania Grasso. (...)
La Lunga marcia della memoria che ha attraversato il fortino della ‘ndrangheta sull’Aspromonte ha scosso le anime presenti e segnato quei luoghi, per troppo tempo simbolo di caustrofobica prigionia.
“Gli altri anni per la commemorazione di mio padre - ha dichiarato commossa la figlia di Lollò - andavamo solo noi familiari, chiusi nel nostro dolore, avvertivamo una certa cupezza. Quest’anno è stato magico perché non eravamo soli e abbiamo potuto condividere il nostro dolore con tutti i ragazzi che ci hanno accompagnato sulla tomba di papà”.Una lunga camminata che sarebbe stata assai faticosa se non fossimo stati sospinti da una volontà superiore di resistenza e di opposizione verso il cancro che divora lentamente una terra tanto bella e profumata quanto dannata e marcia. La volontà di ricordare i caduti di questa guerra tra onesti e mafiosi ci ha portato per quegli aspri e desolati sentieri teatri di orrendi delitti. Il coraggio di affrontare i luoghi simbolo della ‘ndrangheta nasce dall’insaziabile bisogno di giustizia che ci portiamo dentro, un bisogno collettivo che unisce le diverse storie di vita raccontate là, all’ombra della maestosa Pietra Cappa e protetti dallo spirito dei dieci, cento, mille Lollò. Spiriti senza tempo capaci di donarci l’energia di andare avanti nonostante tutto, nonostante il vuoto.
Deborah Cartisano, figlia di Lollò, ha saggiamente detto che nella tragica esperienza del sequestro di suo padre lei e la sua famiglia hanno trovato nuovo senso alla vita. Capisco il significato di tali parole. Vedo l’essenza di questa frase nell’annuale pellegrinaggio della famiglia Cartisano sul quel luogo di memoria che custodisce il sacrificio di Lollò. Una camminata che fa paura all’ordine costituito mafioso il quale teme più di ogni altra cosa il risveglio delle coscienze dall’atrofia e dall’anestetica rassegnazione.
Ciò che ha reso speciale la giornata del ventidue luglio, alle pendici del monolite aspromontano, è stata la condivisione di diverse esperienze “da vittima” che ha permesso un sostegno spontaneo tra le sofferenze soggettive di ognuno. Vomitare il dolore per rendere partecipi anche gli estranei a questa sofferenza, per “non piangere da soli”, come ci ha chiesto Stefania Grasso. (...)
La Lunga marcia della memoria che ha attraversato il fortino della ‘ndrangheta sull’Aspromonte ha scosso le anime presenti e segnato quei luoghi, per troppo tempo simbolo di caustrofobica prigionia.
La condivisione della sofferenza è il primo passo di una rinascita collettiva di una comunità distrutta dal dolore. La sera a casa di Lollò, di fronte ad una luna emblematica, i familiari come ogni ventidue luglio, hanno invitato gli amici intimi per celebrare l’omelia in ricordo di Lollò. Ma quest’anno nuova luce e rinnovata energia hanno permeato i muri della casa voluta da Lollò e da cui è stato portato via da una ‘ndrina di Africo il 22 luglio 1993. Una messa mesta e partecipata. Don Tonio Dell’Olio ha saputo coinvolgere credenti, non credenti e incerti attraverso una celebrazione profondamente umana e carica di amore per la vita, mettendo in secondo piano le formalità della liturgia tradizionale. Il chiarore della luna che si specchiava sul Mar Ionio e l’agave simbolo di rinascita, hanno fatto da cornice all’incontro di preghiera in memoria di Lollò. Incontro che quest’anno ha visto la partecipazione di altri familiari delle vittime della ‘ndrangheta. Uniti per non dimenticare, uniti per ricominciare e ricostruire una comunità disgregata dalla prepotenza mafiosa.(...)
L’agave per far nascere il fiore muore. Dal suo fiore nasceranno nuove agavi, nuova vita. Coloro che hanno incarnato il sacrificio di una comunità, come le agavi, sono morti, ma la loro fine rappresenta l’inizio della rinascita, di una nuova vita all’insegna del ricordo ( dal latino re- cordare- riportare al cuore) e dell’impegno per non dimenticare chi con le sue spore di sangue e speranza ha impollinato la terra di Calabria, gettando la semenza dell’idea di libertà dal dominio mafioso.