di Nino Giaramidaro
Prendiamone una a caso. Vecchia cartolina di piazza Matteotti. Si chiamava allora Torre Bianca, Turribianca per gli intimi. Forse ancora prima sarà stata detta Turris Alba oppure Eburnea – alla lettera – e quindi ‘Abyad. Chissà quali e quanti altri nomi avrà avuto quel triangolo scaleno di terriccio dove finiva la trazzera 484 – poi provinciale 50 – di Salemi, una volta Salem, forse Semellia. Niente asfalto, una grande fontana che nella fotografia non si vede, intorno case superstiti all’Ottocento, lo stradone che si allunga sino al mare e le svolte a sinistra e a destra che saranno intitolate a Vittorio Veneto e che gli indigeni, ignari del Tempo, continueranno per alcune generazioni a riconoscere come la Strada della Corsa.
La fotografia – essenziale e scarna – non può dire perché Torre, ma la fantasia, frugando nell’indifferenza del Tempo, può avventurarsi in risposte, anche le più spericolate. Forse era una stazione turrita sull’itinerario siciliano percorso dai pellegrini della Via Francigena, l’ultima di terraferma prima di imbarcarsi per Siracusa o Messina, da dove raggiungere il cammino estremo verso la Terrasanta.
1946 - Campo scout
Fa angolo con la via Giuseppe Ungaretti quella dedicata a monsignor Giovan Battista Criscuoli, parroco della cattedrale negli anni ‘40 e ‘50, sommesso protagonista politico e capo spirituale degli scout dell’Asci e dei giovani dell’Azione cattolica. Meglio noto come “Patririscola”. Era vecchio, canuto e poco malleabile. Tralasciando l’aneddotica fra lui e il sagrestano Tano a proposito di acqua e vino, il suo volto dirada le nebbie sulla memoria di giovani conosciuti intorno al finire degli anni ’40 e l’inizio dei ’50.Alcuni mi sono rimasti amici, di altri non so più il nome, tutti che mi guardano come per sorprendermi dalle incredibili pagine di “Mazara forever”. Su quei visi stringo gli occhi alla ricerca di episodi, fatti vissuti insieme, giorni e notti trascorsi su quel circuito delle vie Garibaldi e Porta Palermo, corso Vittorio Veneto e Umberto sino a giungere alla terrazza sul mare di piazza Mokarta per contendere al cameriere Pino Russo le sedie e i tavolini del bar di Vito Sardo. Hanno il volto del tempo, non più di un amico, un memorabile, un parente, un qualcuno: il tempo mazarese salvato, sospeso sotto forma di pixel che, dicono, sono figli dell’eternità. Quelle esistenze dureranno più delle pennellate di Vermeer, della Gioconda, dell’arte fatta di materia perché sono virtuali, cioè immateriali così come il Tempo.
Certo un cognome non agevole per un fascista, che si prestava al pericoloso bisticcio di parole camerata-compagno. Nemmeno le regole della lingua che traducevano Milocca in Milena, Spaccaforno in Ispica, Louis Armstrong in Luigi Braccioforte, garçonnière in giovanottiera, Bob Hope in Roberto Speranza, Wanda Osiris in Vanda Osiri potevano soccorrere un cognome in perfetto italiano. Probabilmente i camerati provavano un certo imbarazzo quando nelle adunate si procedeva all’appello a voce alta.Il vice Gotha della città – il Gotha naviga sempre di bolina – appare in piccole immagini degli anni in camicia nera. Rubino (podestà), Saffiotti, Sansone, Norrito, Milone, Grassa, Sanfilippo, Di Giorgi, e Totò Compagno. Me lo ricordo a mezzo busto, dietro il banco della sua tabaccheria in via Marina – forse via Sant’Antonio – assediata dalle patate Burgio, poi alla fine della via Luigi Vaccara.
Cartella calcio. Diffusa, precisa, una moltitudine di nomi e ricordi, aperta al tempo precedente. Ecco una formazione errante negli anni. Barracchedda (Filippo Lodato) in porta, a volte tanto per dire, protagonista di acrobatiche e barocche parate che spesso arrivavano dopo il pallone, Baldassare Gallo – chiamato anche Batassano perché Baldo ancora non era nell’uso – terzino destro, Giovanni Marrone, Ballarin, come l’Aldo del Grande Torino, Pino Vento, Ettore Saffiotti, Pierino Di Liberti (ruolo naturale terzino), Franco Tumbiolo, detto Francolino, insidioso e veloce, Pino Bruno, Pino Catalano, Salvatore Rallo, cioè Turi Ramunnu, Pietro Ferrantelli.
una formazione del'U.S. Mazara - anni Sessanta
Scampoli alla Rinfusa. Il terzino Volk, che continuava ad allenarsi da solo dopo il fischietto del finis. Metodico, silenzioso, oltre il metro e ottanta, biondastro, fisico da Wehrmacht, forse uno dei tanti fuggiaschi di fine guerra che si aggiravano in Sicilia, forse solo un mio cattivo pensiero. Garabedian, allenatore asciugato dagli anni, calzoni alla zuava, bastoncino e orgoglio della sua diaspora armena, restio ai compromessi, emanava disposizioni atletiche bruscamente, forse era un ittita errante. Sergio Vergazzola era stato un ottimo centravanti in serie B, poi l’età e i guai a un ginocchio lo convinsero a diventare allenatore – giocatore, e faceva gol: a tu per tu con il portiere, spingeva con pigra precisione il pallone n° 5 in rete.
Il portiere palermitano Tarantino: fu portato in trionfo dopo una partita nellaquale aveva parato tutto con quelle sue braccia lunghissime e l’andatura caracollante; forse aveva neutralizzato persino Mannarà, malpelo e velenosa ala sinistra dello Sciacca, rimasto memorabile. Poi De Benedettis, gambe storte e tiro gol dal calcio d’angolo. Venditti, anziano uomo assist, scrupoloso, era giunto con tutta la famiglia. Salvatore Bua da Castelvetrano, centravanti con i calzettoni alla Sivori e il movimento alla Paolo Rossi. Sten Guttadauro, uno degli allenatori rimasti nella memoria, con Pollak e pochi altri. Non ricordo nient’altro di loro se non il nome, credo perché insoliti e quasi stranieri. E i nomi illustri: Piola, Passarella, Ricagni, anche un Di Stefano; erano altri, omonimi dei campioni ma lo stesso carichi di suggestioni.
Galleria di ritratti degli anni ’50. La maggior parte in studio: Boscarino e La Bianca; forse non c’era più, a metà della via Garibaldi, l’atelier del fotografo Lazzara. Una collezione democratica, dal falegname al muratore, da Gino Caci, provetto meccanico navale con moglie bella e profumiera. Il dottore Vito Mauriello, che quando cadevo con la motocicletta, lasciava il Circolo Nuovo per venirmi a visitare a casa, oltre il ponte littorio sul Mazaro, e senza farsi mai pagare. Don Filippino Adamo, assediato da biciclette e motociclette fuori della sua botteguccia in piazza Mokarta. Era appassionato di ruote e caccia.
Tutta una schiera di Tumbiolo che, anche a metterci i nomi di battesimo, resta difficile capire di chi si tratta. Il ragioniere Vito Di Liberti, fotografato per strada nel ’35, in elegante doppiopetto, con sigaretta e l’aria di un tombeur de femmes che si fa pubblicità. Michele D’Annibale, figlio di Martino, anzi di Martino lu grossu, perché c’era un altro Martino D’Annibale nella via Garibaldi, pure panettiere, ma per distinguerlo era chiamato Martino lu siccu. Mai più assaporata rianata come quella del primo Martino, alta e soffice, e il “pane francese”, sottile e lungo con un sapore che sarebbe inutile cercare di descrivere.
In una foto delle tribune dello stadio si vede Peppino Stabile, uomo popolare, il sorriso largo e con impareggiabili gocce mefistofeliche, spese tutta la sua perseveranza per diventare messo comunale, nel frattempo di lunghi anni si arrangiava sino – dice la leggenda – a vendere il bilico della dogana a vignaioli marsalesi diversi anni prima che Totò vendesse la Fontana di Trevi a un americano.Non è possibile sfogliare i titoli di Mazara forever tutti d’un fiato. «Il mio piccolo e istintivo progetto – dice Pino Catalano – col tempo si è ingigantito e ci ha travolto tutti in un vortice emozionale. Ha anche commosso tanti di coloro che hanno dovuto lasciare il suolo nativo e ha dato l’opportunità ad essi di gioire con noi nel poter rimembrare. Non è mio costume auto celebrarmi, ma come spesso ho ripetuto, se non promuovi il tuo lavoro, anzi il “nostro” lavoro, tutto rimane vano. La divulgazione e la ricerca di nuovi adepti è condizione necessaria ed indispensabile per un ulteriore incremento e miglioramento del certosino lavoro realizzato».
Concludo i miei clic sul secolo delle infatuazioni nell’indice Scuola. Anno scolastico ‘48/’49, trovo nella II B Nenè Gagliano, Angelo Villani, Alberto Polizzi, Aurelio Norrito, e Sergio Mavilla – mi somigliava tanto che una volta mia madre lo schiaffeggiò al posto mio, – Ermanno Paladino – mio tenace istigatore verso il mestiere che ho fatto, – Inzone, Stefano Inzone, magico manovratore di strumenti Morse, trasmetteva e riceveva insieme a Nicolò Quinci nel reparto scout Mazara 2. Non so più nulla di lui, e me ne dispiace.
Se insistete a guardare quelle facce potete sfiorare la vertigine del passato e non vedere più il viso di un amico, di un qualcuno, ma il volto del tempo. «All’attimo direi: / sei così bello, fermati! / Gli evi non potranno cancellare /l’orma dei miei giorni terreni». Ecco, forse attribuire a Pino Catalano i versi del Faust di Goethe è esagerato, ma lui ha messo da parte, anche per me, storie della mia giovinezza e tante altre sospese sopra quindicimila attimi fuggenti.