di Rosario Lentini
Nei mesi scorsi, la mia attenzione è stata catturata da uno dei tanti fascicoli del Gabinetto di Prefettura della provincia di Palermo, sottratti solitamente alla polvere da qualche laureando o dai frequentatori abituali dell’Archivio di Stato. Recava la seguente intestazione: “Ajello Dr. Cav. Uff. Abele. Onorificenza”. Non ho esitato a richiederne la consultazione, anche perché non mi pare si conosca molto della sua biografia, se non il fatto di essere stato il primo chirurgo italiano a compiere un intervento di sutura miocardica, nel 1906, in un paziente che aveva subito un trauma toracico. All’interno della cartella, contenente pochi documenti, rinvenivo, tra l’altro, la proposta del prefetto al ministro dell’Interno, datata 27 febbraio 1909, per il conferimento dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia al dr. Ajello, nato a Mazara del Vallo l’8 aprile del 1859 e laureato in medicina e chirurgia presso l’Università degli Studi di Napoli il 22 agosto 1887: «Egli è uno dei più accreditati sanitari di questa città – scriveva il prefetto – riscuote la stima universale e la sua opera è apprezzata per la maniera coscienziosa e l’alto valore con cui esercita la professione. Ed il suo valore scientifico appunto gli ha procurato la libera docenza in chirurgia presso questa Università dove è stimato dai colleghi, benvoluto dalla studentesca (sic). È altresì primario chirurgo nell’Ospedale Civico e nel locale Manicomio e la sua opera validissima in vantaggio dei ricoverati fa sì che egli sia tenuto in alto conto dai direttori di quegli Enti. In occasione del disastro di Via Grande Lattarini, il dr. Ajello dié prova di virtù e di abnegazione dedicando la sua attività infaticabilmente all’assistenza dei numerosi feriti e tale sua condotta riscosse la viva lode di quanti poterono vederlo all’opera di soccorso».
Tre anni dopo, il 28 dicembre 1912, il Tenente Generale del XII Corpo d’Armata di stanza a Palermo, informava il Prefetto di voler proporre al ministro della Guerra un’onorificenza da attribuire a dieci medici – tra i quali figurava il nome di Ajello – per essersi prodigati nelle cure dei militari reduci dalla Libia.
Confesso che, se della guerra italo-turca avevo studiato qualcosa, dell’esplosione palermitana del 1907 ignoravo tutto; mi passavano per la mente solo alcune foto di macerie nel cuore del centro storico, non legate alla conoscenza delle cause del disastro.
Immagini, come quella qui riproposta, nella quale campeggiano sulle macerie le sagome di due carabinieri, posti a vigilare sul teatro di morte di una guerra ufficialmente non dichiarata ma che – come indicheranno i fatti – si stava già svolgendo nel cuore di una città apparentemente «felicissima», che si era lasciata alle spalle l’omicidio dell’ex sindaco Notarbartolo, nel 1893, con relativa disinvoltura. Quelle due macchie nere di militari dell’Arma, sulle macerie non più fumanti, pur nella loro statuarietà, sembrano persino lanciare un messaggio rassicurante di conquista di un territorio prima non controllato.
Che sarà, dunque, accaduto quel pomeriggio del 19 dicembre 1907, in una viuzza dell’antichissimo ex mercato arabo delle spezie? Forse uno dei tanti crolli di edifici fatiscenti che non fanno più notizia e che ormai (XXI secolo) i palermitani considerano ineluttabili? E quanti feriti avrà curato il medico Ajello per meritare un’onorificenza? Vero è che, oggi, per molto meno un cavalierato non si nega a nessuno, ma nell’Italiettaliberale di inizio secolo, i filtri amministrativi della selezione erano ancora relativamente funzionanti. Non rimaneva che sfogliare la stampa dell’epoca per saperne un po’ di più e per scoprire la gravità dell’accaduto e le differenze di “sostanza” giornalistica tra L’Ora,di proprietà dei Florio, di impronta liberal-conservatrice e filo-sicilianista; il Giornale di Sicilia della famiglia Ardizzone, su posizioni più progressiste, e il settimanale socialistaLa Battaglia.
Poco dopo le 17 di quel pomeriggio prenatalizio si verificava “L’immane catastrofe”, (così titolava L’Ora il giorno seguente), provocata dall’esplosione di un deposito di polveri piriche e da sparo all’interno dell’armeria del signor Francesco Ajello, (nessuna parentela con il nostro maestro della chirurgia), che sarebbe deceduto un’ora dopo presso l’ospedale della Concezione. Le vittime, però, non furono soltanto quelle molto prossime all’armeria; la tragica contabilità, infatti, cui si pervenne dopo i giorni necessari a rimuovere tutte le macerie, registrò 62 morti e circa 80 feriti. Difficile pensare che proiettili e petardi potessero aver provocato un’onda d’urto tanto violenta da far crollare edifici e averne danneggiati altri nel raggio di alcune centinaia di metri. Secondo il regolamento di Pubblica Sicurezza, nella bottega non avrebbero dovuto trovarsi più di 25 chili di polveri; in realtà, ce ne saranno stati almeno 1.000, tant’è che dopo le prime dichiarazioni delle autorità, improntate a cautela, e il depistaggio di improbabili testimoni oculari che avrebbero visto, pochi istanti prima della deflagrazione, l’armiere Ajello trascinare fuori dalla bottega una cassa che aveva preso fuoco, gli indizi e i primi accertamenti conducevano in tutt’altra direzione. Le esplosioni, in rapida sequenza, sarebbero state due: la prima, in una sorta di laboratorio segreto al piano rialzato, dove l’armiere confezionava cartucce di dinamite per i numerosi bombaroli che si dedicavano alla “pesca” facile, nelle borgate di Isola delle Femmine, Capaci e Sferracavallo. Non a caso, tra le vittime fu identificato anche Gaetano Faja, di anni 33, residente nel quartiere della Kalsa, già noto come figura di intermediazione tra l’armiere e i pescatori di frodo. La seconda deflagrazione, al piano terreno dell’armeria, sarebbe stata provocata dalla prima, con la conseguenza che l’onda d’urto e le fiamme si propagarono alle abitazioni antistanti la bottega. Ma la violenza dell’esplosione danneggiò più o meno gravemente anche gli altri edifici e, in particolare le tre modeste locande Concordia, S. Rosalia e Corleone, situate nell’isolato tra via Calascibetta e via Grande Lattarini, dove alloggiavano decine di emigranti provenienti da diversi paesi dell’Isola, in attesa di imbarcarsi “per l’America” e dove, invece, alcune decine di essi conclusero il loro viaggio sepolti tra le macerie.
Dalle colonne del settimanale socialista si lanciarono accuse durissime al prefetto De Seta, che non aveva tenuto conto delle segnalazioni che il periodico aveva pubblicato nei mesi precedenti, riguardo ai frequenti incidenti verificatisi in città per ragioni simili, ma che sino a quel momento non avevano causato così tante vittime. Già dalla seconda metà dell’800, infatti, la pesca con la dinamite era diventata – e non solo in Sicilia – un’attività sempre più praticata, tanto che il Governo, nel 1877, aveva cominciato a porre divieti legislativi e relative sanzioni pecuniarie, nel vano tentativo di arginare il fenomeno. Nelle borgate marinare di Palermo, però, questa pseudo-pesca aveva assunto caratteristiche criminali in quanto effettuata non da singoli soggetti privi di coordinamento tra loro, bensì in forma associativa e spesso con la compiacenza prezzolata dell’appaltatore per la riscossione del dazio sul pescato e delle guardie daziarie comunali che consentivano l’immissione, nel grande mercato del capoluogo, di prodotto “dinamitato” venduto per fresco. Il capitano del Compartimento marittimo di Palermo aveva ben compreso la pericolosità di quella struttura organizzativa e non esitava a manifestare i suoi timori al prefetto, con lettera del 2 febbraio 1897: «Non è solamente di pesca che si tratta; non solamente è urgente di provvedere alla tutela della riproduzione della specie, ma s’impone la considerazione dell’ordine pubblico. Dieci o dodici facinorosi, violenti, appartenenti alla cosiddetta mafia (la sottolineatura è nell’originale della lettera) s’impongono a molte centinaia di pescatori laboriosi e onesti».
Se queste erano le premesse ottocentesche, non sorprende che dieci anni dopo la produzione e la vendita clandestina di cartucce con dinamite, fossero cresciute in misura esponenziale e che armieri più o meno spregiudicati e incoscienti avessero trasformato le loro botteghe in laboratori.
A lettura conclusa dei periodici, si rimane, però, colpiti anche da un altro aspetto della vicenda e cioè dalla velocità di rimozione dell’evento, sia dalle pagine dei quotidiani, nelle settimane successive, sia dalla storia cittadina nei decenni che seguirono, nonostante la gravità dell’accaduto. Si ha l’impressione, infatti, che l’episodio sia stato gradualmente metabolizzato, come accadeva con gli incidenti sul lavoro, quasi si fosse trattato di una sciagura in miniera, di quelle che spesso la cronaca riportava, con il consueto e tragico bilancio di decine di zolfatari vittime delle esplosioni di gas “grisou”. D’altronde, di cosa potevano morire un armiere spericolato e un trafficante di cartucce per bombaroli, se non del loro rischio “professionale”! Se non ci fosse stato lo spiacevole effetto collaterale dell’elevato numero di morti, la notizia sarebbe sparita dalla cronaca cittadina dopo tre giorni.
Anche in questo caso, la rimozione della tragedia rassicurava l’opinione pubblica che, semmai, poteva continuare ad essere aggiornata sulla raccolta di fondi per le famiglie danneggiate. Passava ancora una volta in secondo piano, il fatto che un’attività produttiva – quale la piccola pesca costiera, di cui vivevano centinaia di famiglie – fosse ormai succube della prepotenza mafiosa dei bombaroli di Sferracavallo e di Capaci, cioè di uno dei tanti nuclei criminali organizzati e territorialmente strutturati, come quelli che da lì a poco il questore Ermanno Sangiorgi avrebbe censito, contrada per contrada e quartiere per quartiere.
Chissà quanti feriti da “cartucce” avrà curato il professor Abele Ajello, nella sua lunga esperienza chirurgica palermitana. Il dato in sé non avrebbe grande rilevanza sul piano dei meriti professionali e, infatti, nella lapide marmorea inaugurale, collocata il 9 febbraio 1969 alle pareti dell’ospedale mazarese, allorché gli si è intestata la struttura sanitaria, si legge: “aprì la via alla chirurgia del cuore”. Perciò, per continuare a onorare la sua memoria e per il bene della collettività mazarese, bisognerebbe evitare che la chiusura del nosocomio – per lavori di adeguamento, da febbraio 2011 – trasformi la strada da lui aperta in un vicolo terribilmente cieco.
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